IL CINEMA E IL SUO DOPPIO

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Adèle Bossard-Giannesini

Les Fiches du Cinéma è la rivista francese sul cinema più antica e la sua peculiarità consiste nella sua esaustività. Infatti, il suo comitato editoriale scrive su tutti i film di lungometraggio che escono in sala sul territorio francese, il che fa della rivista una delle fonti francesi sul cinema più complete dal 1934.

Per questa 5a edizione del festival Italie Nouvelle, abbiamo voluto collaborare con Les Fiches du Cinéma con lo scopo di proporre tre articoli che esplorano diversi aspetti del “corpo” rappresentati nel cinema, permettendo di completare la nostra programmazione ma anche di offrire punti di vista plurali sull'argomento. Margherita Gera, Adèle Bossard-Giannesini e Clément Deleschaud sono i tre giornalisti che hanno accettato di partecipare a questo progetto. Li ringraziamo molto e speriamo che i loro contributi possano piacervi, quanto sono piaciuti a noi!


IL CINEMA E IL SUO DOPPIO

di Adèle Bossard-Giannesini

Quando si pensa alla parola “attore”, vengono forse in mente alcuni volti visti sui grandi schermi, dei ricordi di alcuni film, delle battute “cult”. Quando si pensa al lavoro dell’attore, spesso ci salta subito alla mente l’espressione “Actors Studio”. L’attore formato negli Actors Studio si impegna anima e corpo nel suo personaggio, non mente, è vero. “Il metodo” abbraccia una parte del pensiero sul lavoro dell’attore al cinema e forse questo non è un caso. L’idea diffusa di “mettersi nei panni del proprio personaggio” è significativa dell’immagine che si può avere dell’attore, ma anche del nostro rapporto all’immagine e al cinema.

Un’immagine è una prova di esistenza presa dalla realtà. Tuttavia, essa può mentire, o meglio si può far mentire, o almeno farle dire ciò che si vuole. Il recente scandalo riguardo la legge francese “Sécurité globale” ci ricorda che l’immagine può essere vista come una sfida al potere, e quindi alla censura. La paura che un’immagine possa rivelare una verità si accompagna alla paura della diffusione di un’immagine fasulla considerata come vera. Così, un’immagine diventa sempre pericolosa perché sempre è sospettata di dire la verità o di mentire. L’attore, facendo del suo corpo di carne un’immagine, è coinvolto in questa tensione fra verità e menzogna.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Roberto Rossellini lascia in parte gli attori professionisti e inizia a girare in strada, fra le rovine di un’Europa esangue, ancora coperta sotto la maschera della dittatura. Gira i suoi primi film senza nessun mezzo tecnico, lavora in modo informale, famigliare, in rapporto diretto con i luoghi e le persone che dirige: “un viaggio piacevole, una scampagnata fra amici” ricorderà Fellini, assistente per il film Paisà. Un modo di concepire il teatro opposto a quello disumano di Cinecittà, dove il regista, appollaiato su una giraffa con un megafono, grida i suoi ordini ad una schiera di comparse (sempre stando alle parole di Fellini).

Contemporaneamente in Francia, Robert Bresson si confronta con la maschera del teatro. Secondo il regista, i commedianti sono creature artificiali, capaci soltanto di nascondersi dietro alla maschera della tecnica: gli attori mentono, e di conseguenza, così fanno i loro personaggi. Questa visione dell’attore porta però sofferenza per quest’ultimi, che si vedono ridotti a meri modelli. Maria Casarès rivelò di essersi sentita limitata, persino perseguitata sul set di Perfidia, e di avere un ricordo amaro di quella esperienza. Bresson inizia così a rivolgersi a degli attori non professionisti, più malleabili, meno desiderosi di uno scambio, di una creazione collettiva. Per Bresson, la relazione è unilaterale: l’attore non ha nulla da proporre, deve dare il suo corpo e la sua voce all’opera, che solo il regista crea. Non è un collaboratore artistico ma un elemento plastico.

Per Sacha Guitry invece, la vita è solo rappresentazione e messa in scena, artefici e menzogne, non vi è un confine tra la scena e la sala (vedere Tôa). Il mondo è un teatro, il teatro è il mondo, e Guitry passa al cinema per dirigere le sue opere teatrali, per conservarne una traccia, quando invece altri vogliono immortalare il reale. Le riprese della sua famiglia di commedianti sono velocissime: tutti conoscono perfettamente il loro testo e Guitry non si preoccupa di fare tagli o montaggi complessi. Sul suo set, l’attore è il re, e la tecnica deve assecondarlo. Attore e regista, Guitry dà il ritmo al film dall’interno ai commedianti, così come ai tecnici.


Nel 1973, in La grande abbuffata di Marco Ferreri, Ugo Tognazzi imita Marlon Brandon in Don Corleone (Il padrino, 1972) senza nessuna giustificazione narrativa o psicologica al gesto: è innanzitutto un momento di puro gioco tra gli attori e Ferreri, ma anche con gli spettatori che riconoscono Brando come patriarca della mafia. Giocando con il suo desiderio di incarnarsi nell’attore americano, Tognazzi rende significativa la tensione tra, da un lato, l’interpretazione dell’attore, il suo momento di bravura individuale nell’incarnazione riuscita, dall’altro, il piacere del gioco collettivo che riescono a trasmettere gli attori di Ferreri.


Il lavoro dell’attore al cinema si divide schematicamente in due concezioni: una ricerca di autenticità per conformarsi fisicamente e psicologicamente a un Altro preesistente supposto (il personaggio), e un lavoro dove solo il piacere dell’interpretazione è importante poiché il personaggio non preesiste all’attore che lo incarna.

La prima concezione, rappresentata (in modo caricaturale) dall’Actors Studio, si è imposta nell’immaginario collettivo, forse perché un’emozione realmente provata dall’attore sembra autentificare e legittimare un’immagine: ciò che è vero nella vita, è vero all’immagine. Ma il cinema non è solo immagine, non ha per vocazione la produzione di immagini vere o false ma la volontà di interrogare il reale, che esso sia nella verità, o nella menzogna di sé stesso. L’ipocrita, quello che recita, è un bugiardo ma provoca anche una verità del mondo, così come il cinema sa che un’immagine è solo un’immagine ma è comunque immagine di qualcosa. Il cinema e l’attore propongono una nuova presentazione del mondo, un mondo né vero né falso. Più di un semplice viso, il corpo dell’attore diventa paesaggio.


Traduzione di Cecilia Fini e Giulia Zoccolan.


Dopo aver studiato cinema all’università, Adèle Bossard-Giannesini si orienta verso il mestiere di attrice. Parallelamente a questa attività, Adèle Bossard-Giannesini dal 2019 collabora come redattrice per Les Fiches du Cinéma e nel 2020 pubblica il suo primo saggio sul cinema L’attrait du sommeil presso la casa editrice Yellow Now.

Per scoprirne di più sui suoi gusti cinematografici, vi invitiamo a guardare il suo questionario cinefilo sul sito delle Fiches du Cinéma: https://www.fichesducinema.com/2020/04/le-questionnaire-cinephile-de-adele-bossard-giannesini/

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