VENERI DA CIRCO

Margherita Gera
image1-mg.jpg
Margherita Gera, Fiches du Cinéma

Les Fiches du Cinéma è la rivista francese sul cinema più antica e la sua peculiarità consiste nella sua esaustività. Infatti, il suo comitato editoriale scrive su tutti i film di lungometraggio che escono in sala sul territorio francese, il che fa della rivista una delle fonti francesi sul cinema più complete dal 1934.

Per questa 5a edizione del festival Italie Nouvelle, abbiamo voluto collaborare con Les Fiches du Cinéma con lo scopo di proporre tre articoli che esplorano diversi aspetti del “corpo” rappresentati nel cinema, permettendo di completare la nostra programmazione ma anche di offrire punti di vista plurali sull'argomento. Margherita Gera, Adèle Bossard-Giannesini e Clément Deleschaud sono i tre giornalisti che hanno accettato di partecipare a questo progetto. Li ringraziamo molto e speriamo che i loro contributi possano piacervi, quanto sono piaciuti a noi!

Veneri da circo

Margherita Gera

Nel suo film La donna scimmia (1964), co-produzione franco-italiana con Ugo Tognazzi e Annie Girardot, Marco Ferreri racconta la storia di Maria, una ragazza di Napoli con il viso e il corpo completamente ricoperti di peli. A causa di questa anomalia genetica, chiamata “ipertricosi”, Maria vive nascosta in un convento, quando viene scoperta da Antonio, che non si lascia scappare l'occasione di sfruttarla come fenomeno da baraccone. Persuasa di poter in questo modo uscire allo scoperto e mostrarsi senza vergogna, Maria accetta di recitare per un assurdo spettacolo il ruolo della donna scimmia, che si dondola su un albero facendo tintinnare un succinto costume a sonagli, e viene infine richiusa in una gabbia attraverso le cui sbarre gli spettatori sono invitati a testare con le proprie mani la veridicità dei suoi peli.

Nonostante faccia notare ad Antonio che, in fondo, è pur sempre una donna come tutte le altre, Maria sopporta questa umiliazione, un po' perché le viene fatto credere di non avere altra scelta, un po' per amore di colui che si spaccia come il suo salvatore. Forzata a sottoporsi all'ispezione di uno studioso, Maria scappa e torna in convento, dal quale però è sottratta nuovamente da Antonio, che questa volta decide di sposarla per poterla tenere sempre legata a lui. Felice di aver potuto trovare marito nonostante il suo aspetto, Maria diventa così completamente succube, in quanto moglie e quindi proprietà dell'uomo, che può decidere di fare del suo corpo quello che vuole.




Critica al matrimonio come convenzione sociale basata sull'opportunismo e alla società che trasforma ogni valore in mero oggetto di consumo, La donna scimmia è emblematico dello stile grottesco e cinico che caratterizza il cinema di Ferreri, e per il quale il regista è stato molto spesso vittima della “censura preventiva”. Il film infatti è stato pensato con tre finali distinti. Il primo, quello voluto da Ferreri, completa il senso del film: Maria, rimasta incinta, muore di parto assieme al bambino, Antonio cede i due cadaveri al Museo delle Scienze dove vengono imbalsamati, ma infine ci ripensa e, reclamati i corpi, li espone in un baraccone da fiera. Il secondo finale, sottoposto a censura, conclude il racconto sull'immagine di Maria morta nel suo letto d'ospedale, mentre il terzo, girato apposta per la versione francese, ribalta ipocritamente l'epilogo della storia, dove Maria grazie alla gravidanza perde i peli, il bambino nasce glabro e il marito si trova un lavoro onesto nel porto di Napoli.

Molto più simile al primo è il finale di una delle storie che hanno ispirato il soggetto del film, quella di Julia Pastrana, donna barbuta nata in Messico nel 1800 e esibita dal marito in giro per il mondo anche dopo la sua morte. Il destino di questa donna e l'uso raccapricciante che è stato fatto del suo corpo, non sono così diversi da quelli di Saartjie (Sarah) Baartman, la cui storia viene raccontata nel film di Abdellatif Kechiche, Vénus Noire (2010). Originaria del Sudafrica, dove viene fatta schiava, Sarah abbandona la sua terra natale agli inizi del 1800 per seguire il proprio padrone in Inghilterra, il quale vuole sfruttarla per la sua morfologia fuori dal comune: la ragazza è infatti affetta da un'ipertrofia delle anche, dei glutei e degli organi genitali. Promettendole soldi e indipendenza, l'uomo la fa esibire come attrazione in giro per l'Europa, dove diventa conosciuta con il nome di “Vénus hottentote”. Come la donna scimmia, Sarah recita la sua parte, viene rinchiusa in una gabbia e il pubblico è invitato a toccare i suoi fianchi prosperosi.



Schiava in Europa come lo era in Sudafrica, la giovane donna non ha altra possibilità che stare agli ordini dell'uomo che le fa credere di essere libera, di sottomettersi agli sguardi di quelli che assistono allo spettacolo del suo corpo, esibito come merce esotica. Kechiche ripercorre le diverse tappe del percorso di Sarah Baartman in Europa, dal circo di Londra ai salotti e bordelli parigini, focalizzandosi sulle diverse esibizioni del suo corpo e sulle espressioni del suo volto, quasi sempre ripreso in primissimo piano. Ma al di là del volto di Sarah, sono i volti del pubblico che assiste e quelli dei suoi sfruttatori che occupano un posto centrale nel film, ed è proprio attraverso i loro sguardi che diventiamo anche noi spettatori delle crudeltà che le vengono inflitte e allo stesso tempo portati a non poter distogliere lo sguardo. Queste scene collettive riescono a mostrare che non si tratta soltanto della mercificazione del corpo di una donna, che è la vittima principale, ma di un'intera società, abituata ad assistere inebetita allo spettacolo della volgarità e dell'ignoranza, e per cui l'unico valore è quello delle merci, l'unica logica quella del vendo-compro. Prima oggetto di spettacolo, poi oggetto sessuale e, infine, oggetto di studio, il corpo di Sarah viene sfruttato anche dopo la sua morte e la sua salma viene dissezionata dall'anatomista Georges Cuvier, soddisfatto di potere finalmente avere accesso a quello che da viva la ragazza non aveva voluto concedere al suo sguardo.

Il film si chiude là dove all'inizio Cuvier illustrava una tesi razzista che accomunava l'anatomia di Sarah Baartman a quella delle scimmie: sul palco dell'Accademia Reale di Medicina di Parigi. Il pittore che un giorno aveva chiesto a Sarah il permesso di ritrarla, forse l'unico il cui sguardo aveva visto al di là del suo corpo, ha dipinto il suo calco di gesso, dato un'ultima pennellata alle palpebre dei suoi occhi chiusi, coperti infine da un velo bianco. Il sipario si chiude, ma lo spettacolo della Venere nera non è finito. Proprio come per la donna scimmia: prima corpo da sfruttare, poi statua da osservare attraverso una vetrina, per sempre vittima degli sguardi, priva della parola che non ha mai avuto. Esposti assieme alla statua al Musée de l'Homme di Parigi fino al 1974, i resti di Sarah Baartman sono potuti tornare alla sua terra natale soltanto nel 2002. Durante la cerimonia solenne per renderle omaggio, non c'era più niente da guardare, soltanto delle parole da ascoltare: tra tutte, quelle di un'altra donna sudafricana, la scrittrice Diana Ferrus, e della sua poesia, A poem for Sarah Baartman.


Margherita Gera Diplomata in design tessile e appassionata di cinema e di scrittura, Margherita Gera dal 2018 vive a Parigi dove è redattrice per Les Fiches du Cinéma e assistente costumista per il cinema e il teatro.

Per scoprirne di più sui suoi gusti cinematografici, vi invitiamo a guardare il suo questionario cinefilo sul sito delle Fiches du Cinéma: https://www.fichesducinema.com/2020/04/le-questionnaire-cinephile-de-margherita-gera/

+