Earth – Diptychs

Sofia Uslenghi
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Sofia Uslenghi
  • Corpi Celesti ✶ Le corps dans tous ses états

Nata nel 1985 a Reggio Calabria, Sofia frequenta l’università a Parma per poi stabilirsi a Milano, dove lavora come fotografa e art director. Inizia a fotografare a 20 anni concentrandosi sull’autoritratto, e lavorando sulle sovrapposizioni di fotografie che tengono uniti pezzi della sua storia dei luoghi e delle persone che ne hanno fatto parte. Il suo lavoro è stato esposto a Mia Photo Fair Milano e Photo London.

Nella serie Earth – Diptychs il corpo di Sofia entra in dialogo con fotografie e mappe delle sue terre di origine. La sua schiena si piega per imitare con eleganza le coste della Sicilia o i paesaggi calabresi prestati con uno screenshot da Google Maps; il suo viso si sovrappone ai colori dell’Etna, alle strade di casa e a fiori recisi. Tutti gli strumenti servono per tornare virtualmente dove è nata e dove sente di aver lasciato una parte di sé.


Come è nata la tua passione per la fotografia?

Non so quando sia diventata una passione, non so nemmeno bene quando ho iniziato a fotografare. Ho sempre avuto macchine fotografiche, anche da bambina, poi verso i vent’anni ho iniziato ad usarla come strumento per provare a raccontare qualcosa. Durante l’adolescenza e gli anni dell’università sentivo il bisogno di incanalare le energie in qualcosa attraverso il quale esprimermi, ho preso e mollato diverse cose, le ho provate tutte. La fotografia è l’unica questione sulla quale sono riuscita ad essere perseverante, e non solo per quanto riguarda le passioni.

Quali sono le tue ispirazioni, e come nasce una tua serie fotografica?

Il processo che sta dietro alla realizzazione di una singola fotografia e poi di una serie fotografica ingloba spunti di vario genere, e la maggior parte di questi non riguarda la fotografia. Non è solo una questione fotografica, non lo è quasi mai. Le ispirazioni sono quasi sempre occulte, un mix di input visivi, sonori, sentimentali che fanno nascere la necessità di affrontare una questione o raccontarla, nel mio caso attraverso la fotografia. Rispetto ad altri autori lavoro al contrario: di solito metto insieme i pezzi delle mie fotografie e diventano serie nel momento in cui ho esaurito la necessità di parlare di una determinata questione con quel linguaggio specifico che mi aiutava a raccontarla.

Come è nata l’idea di utilizzare mappe e paesaggio e associarle al tuo corpo?

Ho sempre provato un’attrazione molto forte per le mappe e i paesaggi che caratterizzano i luoghi. E in più ho sempre, praticamente da quando esiste, utilizzato Google e tutti i suoi strumenti annessi (street view e maps) per esplorare luoghi dove non sono mai stata e quelli dove mi piace ogni tanto ritornare. Li guardo dall’alto, mi ci immergo con street view e li osservo con attenzione meticolosa. La necessità di associarmi con il territorio dal quale provengo ha poi messo insieme le cose, me li ha fatti guardare con gli occhi di chi cerca vicinanza e associazioni.

Nelle tue fotografie il tuo corpo è un elemento fondamentale, ti sei mai sentita a disagio di fronte all’obiettivo? Che rapporto hai col tuo corpo?

Sono sempre e definitivamente a disagio davanti alla macchina fotografica di qualcun altro, mi blocco e non riesco a interagire. Cerco di scomparire. Non mi piace avere un rapporto così difficile con gli occhi di qualcun altro, che siano nudi o che passino attraverso la lente di una macchina fotografica. E’ sicuramente legato ai problemi che ho sempre avuto con la mia estetica e con il mio corpo, il timore costante del giudizio. In parte la mia volontà di usare l’autoritratto è uno sforzo che faccio per essere capace di farmi guardare, ma come dico io: associata a questioni profonde, nascosta da strati di immagini e riferimenti.

Nella serie “ Earth – Diptychs” il tuo corpo è in perfetta armonia con i colori delle immagini delle tue terre di origine. Credi che, nonostante tu abbia vissuto in luoghi diversi, le tue origini abbiano determinato la tua persona?

Mi sono accorta della necessità di appartenere a un posto molti anni dopo essermi trasferita dal luogo in cui sono nata e cresciuta. Non so bene da cosa nasca questo bisogno e se sia comune a tutti. Credo che per tutti ci siano dei meccanismi di associazione con i ricordi felici dell’infanzia, legati a volte alle persone ed altre volte ai luoghi, o al cibo, o agli odori. Tutto può essere significativo per scavare nella propria memoria e trovare dei legami con qualcosa che era rilassante, puro nel suo essere un ricordo infantile. I luoghi in cui sono stata sono ovviamente strettamente legati agli eventi del momento in cui li ho vissuti. Ci sono città che ricordo in maniera meno felice di altre, non so se sia una colpa intrinseca del luogo o degli eventi che per me l’hanno caratterizzata.

Qual è la cosa più difficile nello scattare un autoritratto?

Da molti punti di vista scattare autoritratti è un’operazione semplice. Non ci sono altri soggetti coinvolti e che restituiscono un giudizio sull’immagine, i tempi e le modalità sono dettate unicamente dal mio bisogno e dalla mia volontà di mettermi a fotografare. La questione più complessa è forse il bisogno di rendere chiaro il messaggio, il rischio dell’autocelebrazione fine a se stessa è pericolosamente alto.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi, e sei già al lavoro su altri progetti?

Il 2020 è stato un anno difficile a livello globale e personalmente l’ho sofferto parecchio a livello emotivo. Trovare motivazioni e stimoli dentro le mura di casa è sempre stato difficilissimo per me, che sono iperattiva e che non ho mai retto molto la clausura forzata. Sto ancora cercando di cavarci qualcosa di buono, ho i miei dubbi di riuscirci. Aspetto con trepidazione il momento in cui si tornerà alla vita di prima per viaggiare, ascoltare, vivere, essere coinvolta, guardare cose nuove, mostre, musei, incontrare persone nuove. Sono le cose da cui attingo non solo per fotografare, ma per trovare un senso nello stare al mondo.