Pubblicato il
REGARD CROISES

I conti con l'oste

Recensione (Il Sole 24 Ore) di Riccardo Piaggio
a cura di Riccardo Piaggio

"A un certo punto tutti gli altri hanno smesso, e hanno cominciato a fare altro, lo stesso altro in tutta Italia”

“Non mi rimproverate se in queste ministre v’indico spesso l’odore della noce moscata. A me pare che stia bene; se poi non vi piace sapete quello che avete da fare”.

La ricetta è quella delle pappardelle colla lepre. La penna, quella di Pellegrino Artusi, il demiurgo delle nostre cucine casalinghe, esploratore del gusto delle almeno ottomila comunità gastronomiche (tanti sono i Comuni italiani) che con lui, per la prima volta, si sono messe a tavola con la percezione di avere un linguaggio comune. Con una sintassi a sentimento, prima dell’avvento della cucina protocollare di Escoffier. L’elogio della Provincia italiana ha un sapore certamente antico, ma nuovo è l’approccio (e chiare le idee) del giovane Tommaso Melilli, rarissimo caso di scrittore-cuoco e non viceversa. Che per raccontare tavole e cucine d’Italia rivela l’ormai manifesta resa delle cucine artusiane alla globalizzazione

(via Parigi) del gusto: "a un certo punto tutti gli altri hanno smesso, e hanno cominciato a fare altro, lo stesso altro in tutta Italia”. Cioè quello che, partendo dai bistrot parigini, campeggia da decenni sui menu del giorno, giorno dopo giorno, dell’orbe terraqueo: a cominciare branzini, salmoni e tagliate, inevitabilmente umiliati da salse d’ogni ordine e grado. No, l’Italia, gastronomicamente s’intende, non è un Paese per salmoni in salsa rosa. Il romanzo d’esordio di Melilli (dopo l’esperimento francese del racconto breve “Spaghetti Wars”) pubblicato per Einaudi, è per vocazione e cifra stilistica un romanzo del reale, con incursioni nel mémoir e nel reportage. Il libro è la bozza di un manifesto sulla nuova, cioè antica, osteria italiana, qui intuita come architrave dell’intero sistema agroalimentare, enogastronomico e pure identitario italiano. E parte da una constatazione che ha (e fa) un certo senso: “la cucina italiana è antropologicamente inadatta a essere fatta al ristorante”. “I Conti con l’oste” sono quelli che facciamo, o dovremmo fare, ogni qualvolta scegliamo di fare esperienza di quei luoghi precari (le osterie) che restano in equilibrio (e alla giusta distanza) tra l’innovazione dell’alta gastronomia e il folklore del tipico, che vorremmo confinato ai gloriosi ’90. Nel bestiario di Melilli, l’oste è figura mitologica alla frontiera tra cucina e bancone e “se è vero che la terra è di chi la lavora, allora banconi e cucine sono di chi ci sta dietro”. Ma l’oste, che presidia da sempre lo sterminato Midwest italiano, è assente dal dibattito culinario editoriale e televisivo e si sente terribilmente solo, così come i suoi avventori: “c’è una sterminata famiglia di persone che hanno idee molto simili a quelle del mio oste e che però comunicano molto poco tra loro, si sentono soli, non sanno di avere molti fratelli e sorelle.” Invece, l’osteria che Melilli ci mostra è un luogo orizzontale, in cui la filiera tra chi produce, chi trasforma, che assembla e chi consuma (e infine chi lo racconta, ossia l’oste) il piatto è sempre connessa. Il romanzo non celebra la cucina di tradizione, che è pigra e degenera sovente nel concetto di tipico. Al contrario va a caccia della cucina di ricerca, scardinando con numerosi e concerti esempi un luogo comune: la vera cucina di ricerca non è affatto fusion e non sempre è stellata, è quella antica.

image-01-1.jpg

Melilli racconta la trasformazione possibile, anche estetica, della sua idea di ristorante: “per avere una tovaglia vera serve qualcuno che la lava, e di solito non è un uomo”, dunque aboliamo dalle osterie le impegnative (e ormai introvabili) tovaglie di lino e soprattutto l’orrore delle tovagliette di carta/plastica. E si mangi beatamente sul tavolo nudo (ma un tavolo vero, in massello o pietra o resina), che si consumerà vivendo, come una chitarra o un libro usati. Il mémoir funziona, e meglio di una guida; perché qui l’osservatore è anche l’osservato: Melilli sa essere avventore, fornitore, cuoco e, appunto, oste. Che non è quello che sta alla cassa, ma un vero mediatore culturale, come il libraio. Perché il cibo, digestione a parte, è solo una questione culturale. “Volevo inizialmente parlare della trattoria, che è il luogo in cui si mangia e solo eventualmente si beve, mentre in Osteria avviene il contrario. Ma questa parola riassume semanticamente ciò che nella lingua italiana ancora non esiste, ossia il concetto universale di hospitality, che abbraccia tutti in una comunità, produttori, fornitori, camerieri, cuochi”. Ho conosciuto Tommaso Melilli una sera d’autunno di alcuni anni fa, a Parigi. in un bistrot a pochi passi dal Père Lachaise. Le Comptoir, che significa, più o meno, Il Locale. Senza nome, dunque e, appresi poi, senza cuoco: l’oste Melilli, nei due metri quadrati di quella che mi rivelò essere la cucina, vi si muoveva come un cronista che prende appunti. Ogni dettaglio di ciò che accadeva in sala lo interessava ben più dell’atto di ravanare nel pentolone del Comptoir. Sull’ardesia campeggiavano i classici di cui sopra, ma lui mi parlò della pasta con la mollica e dell’intensità delle biete spadellate sul momento; tutto il resto, dal foie gras al solito salmone sopraffatto da innumerevoli salse, non era che un’epifania dell’apocalisse. E qui entra in gioco la Francia, o meglio Parigi: “il primo luogo che ha affermato la dignità piena di ogni tipo di ristorazione”, anche se oggi la rivoluzione francese del gusto è diventata restaurazione (cioè ristorazione). “Quella italiana, basata sui prodotti e sulla semplicità, avrebbe potuto essere la vera nemesi della cucina francese, ma non è stata in grado di affermare la dignità dei suoi carboidrati rispetto ai classici della cucina gastronomica francese”. Il libro si apre con il racconto della fugace esperienza nella brigata di Giovanni Passerini, tra gli chef più celebrati in Francia, che questa nemesi, dal cuore dell’Impero, pratica con successo da alcuni anni; l’ultima volta che ho visto Melilli è stato proprio lì, durante un pranzo insieme ad uno storico narratore della cucina popolare italiana, Donpasta. Non mangiammo il celebre piccione ma una semplicissima cacio e pepe. Ci sorprese, era l’archetipo radicale di un piatto con tre ingredienti e perciò merce rara, a prescindere dalla latitudine. Forse proprio da quell’esperienza è nata la riflessione con cui l’oste Melilli chiude il suo racconto: “ma perché volevamo che il cibo somigliasse a qualcos’altro?”