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REGARD CROISES

Intervista con Raphaël Enthoven sulla laicità

Intervista a cura di Victoire Maurel
a cura di Victoire Maurel

Il modello di laicità «alla francese»

Il nostro modello si distingue dagli altri, innanzitutto per la natura della separazione che viene attuata fra sfera politica e religiosa: tale separazione è piena e intera. In Francia, un religioso è, prima di ogni altra cosa, un cittadino. La fede è una questione privata: nessun presidente è infatti invitato a giurare sulla Bibbia, il Corano (o sul Kamasutra).

Il secondo criterio della “laicità alla francese” (che mi sembra, devo dirlo, la migliore definizione di laicità) è la libertà di coscienza e il diritto di credere ciò che si vuole.

Un ambito di applicazione discusso

In Francia, il dibattito attuale sulla laicità verte sul suo ambito di applicazione.
Infatti, non c’è discussione sul fatto che i rappresentanti dello Stato (professori, poliziotti, in generale tutti i funzionari) debbano rispettare i codici della laicità, ovvero non sbandierare, durante l’esercizio della professione, la loro fede religiosa e confessionale. Questa laicità dello Stato è, come la chiama Paul Ricœur, una laicità d’astensione. In compenso, la discussione verte sulla laicità della società civile stessa. Nel caso della scuola, per esempio, il dibattito non si concentra sui professori, ma sugli alunni.

Detto in altre parole, se lo Stato è laico anche la società civile deve esserlo? È qui che si apre il dibattito. Paul Ricœur fornisce dunque una seconda definizione di laicità, che è la laicità di confronto: un alunno arriva a scuola con la propria identità, singolarità, con le proprie convinzioni e le mette alla prova. È grazie a questa differenza che Paul Ricœur si è opposto, nel 2004, alla legge sui simboli religiosi a scuola.

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La laicità come condizione necessaria alla discussione.

Alcune persone vogliono pensare che la laicità divenga aggressiva e radicale nel momento in cui, per esempio, pretende di proibire ai bambini di mostrare simboli di un’appartenenza religiosa. La laicità è dunque aggressiva in quel momento, o è, al contrario, una condizione necessaria alla discussione? Voglio pensare che non siamo, in quel caso, né in presenza di un’aggressione, né di un divieto, ma al contrario assistiamo a una liberazione.

Prendiamo l’esempio di un corso di filosofia: la laicità non impedisce alle persone di avere delle convinzioni, né impedisce loro di portarle avanti nelle argomentazioni, ma impedisce di far prevalere le loro convinzioni sull’esercizio della ragione.

È il motivo per cui è proprio a lezione di filosofia che si impara la differenza fra blasfemia e razzismo. È sempre a lezione di filosofia che si impara la differenza fra la mancanza di rispetto e l’offesa. Soprattutto, è a lezione di filosofia che apprendiamo la differenza fra opposizione, cioè la giustapposizione di opinioni discordi, e la contraddizione, ovvero la condivisione di una verità che nessuno possiede ma che tutti cercano. Le condizioni di questo tipo di pedagogia si verificano perché a scuola ci si spoglia dei fronzoli e, soprattutto, dei pregiudizi che essi suppongono.

La fede non è un problema. Ciò che rappresenta un problema in un contesto pedagogico è il prevalere della fede sull’esercizio della ragione.

Infine, in ambito quotidiano, per strada, assumere che la società civile non è laica significa ridare valore di legge alle parole di un rappresentante religioso, se è influente.
Acconsentire al fatto che una società non sia laica e che, di conseguenza, le opinioni di questa o quella personalità religiosa possano implicitamente avere valore di legge per alcune persone, significa acconsentire semplicemente al fatto che tutti non condividano le stesse leggi. Una società non laica è una società in cui le leggi non hanno lo stesso valore per tutti.

Laicità e femminismo

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Si è voluto, attraverso l’uso di sofismi, opporre la laicità al femminismo, spiegando che in nome della laicità si privano alcune donne della libertà di vestirsi come vogliono.

Questa argomentazione pone vari problemi. Per prima cosa, nessuno viene privato della libertà di vestirsi come vuole. I simboli religiosi sono semplicemente vietati in alcuni spazi ufficiali o pubblici, e non in ogni luogo pubblico, fortunatamente. È dunque una restrizione che non rappresenta un divieto e che non colpisce nessuno in modo specifico: un simbolo religioso non è preferibile ad un altro. Le manifestazioni ostentate dell’appartenenza ad una confessione religiosa non trovano semplicemente posto negli edifici e nelle istituzioni della repubblica francese.

Si è dunque voluto pensare che la laicità privasse le donne della libera scelta, privandole del diritto di vestirsi come vogliono. A tutto ciò possiamo opporre due categorie di obiezioni, una “debole” e un’altra che ritengo più “forte”.
Prendiamo l’esempio del burkini: nel 2016 ci sono state delle polemiche su questo capo di abbigliamento apparso sulle spiagge francesi. Alcuni vigili e sindaci hanno pensato inizialmente di verbalizzare le donne che li portavano, prima che il Consiglio di Stato decidesse che tali multe non avessero motivo di esistere. La polemica è finita semplicemente perché le persone che chiedevano alle donne di mettere il burkini per andare in spiaggia non lo facevano affinché le donne potessero esercitare un diritto del quale sono di solito private. Lo facevano perché queste donne ricevessero delle multe, cosa che avrebbe loro permesso di presentarsi come vittime di una repubblica oppressiva.

A partire dal momento in cui il Consiglio di Stato ha dichiarato che ognuno può farsi il bagno vestendosi come vuole, non ci sono più stati problemi e soprattutto non si sono più visti burkini. Detto in altre parole, il fatto che alcuni capi d’abbigliamento siano, a mio avviso, simboli del patriarcato e dell’oppressione della donna da parte dell’uomo, non autorizza a vietarli.

Si lotta nel modo sbagliato contro tale capo d’abbigliamento (che è simbolo di sottomissione) se lo si vieta: nella lotta contro il burkini, la sfida è proprio quella di combattere contro una società in cui si possa interdire questo tipo di vestito in nome del suo significato. Di conseguenza, per essere contro il burkini bisogna essere contro il divieto di utilizzarlo.

Preferisco vivere in un mondo in cui il burkini è legale in Francia e il perizoma in Iran, che in un mondo in cui entrambi sono vietati.

Cosa fare di chi decide liberamente di sottomettersi? L’uomo democratico non può giudicare le intenzioni. Può giudicare solo la qualità delle domande che gli vengono poste.
È, ad esempio, il dilemma che Daenerys affronta in “Game of Thrones”. Daenerys conquista la città di Meereen e libera tutti gli schiavi. Tuttavia, qualche giorno più tardi uno di questi le chiede di tornare schiavo, perché almeno quando era schiavo aveva di che nutrirsi. La regina si chiede dunque se

autorizzarlo a tornare a servire, cosa che andrebbe in contrasto con l’idea che si è fatta della sua stessa impresa di liberazione dei popoli asserviti: se permettesse all’uomo di tornare schiavo, l’impresa non sarebbe servita a nulla, se decidesse di impedirglielo, andrebbe in contrasto con il principio stesso per cui agisce, la libertà personale.

Dopo aver esitato, decide in favore della libertà paradossale di sottomettersi: con il burkini bisogna fare lo stesso, rischiando di pensare al posto degli altri e di fornire agli islamisti un nuovo motivo di vittimizzarsi.

Questo dimostra che il vero problema non è che le donne non abbiano il diritto di mettere il velo! Ce l’hanno questo diritto, in tutto il mondo. Il problema è che in alcune parti del mondo le donne non possono levare il velo senza essere decapitate o arrestate. Se si considera che il problema sia la situazione delle donne che portano il velo, che hanno esattamente gli stessi diritti degli altri sotto un cielo repubblicano, si dimentica che l’unico e vero problema è rappresentato dalla situazione delle

donne a Teheran (o a Riyad, è più meno uguale), che finiscono in prigione per aver osato mostrare qualche capello.

È la ragione per cui, secondo me, non esiste, in un modo o nell’altro, il femminismo religioso. Nessun monoteismo è femminista. Tutti hanno in comune il fatto di mettere la donna su un piedistallo, privandola della libertà. Ed è anche la ragione per cui la laicità si oppone frontalmente all’intersezionalità: perché l’intersezionalità, che si presenta inizialmente come la convergenza di tutte le lotte sociali, quella femminista e quella antirazzista, è origine di discorsi in cui il femminismo è, in definitiva, svalutato rispetto all’antirazzismo. Infatti, fra gli intersezionalisti che vedono il razzismo persino nella blasfemia, la paura di essere islamofobici prevale sulla difesa dell’uguaglianza delle donne e, di conseguenza, ci troviamo oggi in una situazione in cui, in nome della convergenza delle lotte, sacrifichiamo una lotta per l’altra.

Il paradosso della laicità è nel fatto che la laicità non parla affatto di convergenza di lotte, ma dice anzi che, in qualunque caso, nessuna lotta deve essere sacrificata. Sotto un cielo laico, il razzismo

non trova più spazio della misoginia. Al contrario, in nome di un doppio paradosso, sotto un cielo intersezionale la misoginia prende tutta la scena in nome della tolleranza.

A proposito di libertà

C’è chi dice che il “rispetto” va difeso, e che in un mondo laico viene violato. Ma l’idea che il rispetto debba prevalere sulla libertà equivale ad uccidere la libertà.

Ségolène Royal, per esempio, interpreta il motto della Repubblica sostenendo che la “fraternité” servirebbe a mitigare la “liberté”. Così, dichiara: “Sì, c’è la libertà, ma c’è anche la fraternità, che significa che non dobbiamo parlare male l’uno dell’altro”. Ma ciò che mi impedisce di calpestare i piedi al mio vicino non è il sentimento di fraternità che mi lega a lui, è piuttosto il fatto che non voglio che nemmeno lui calpesti i piedi a me! In altre parole, non è la fraternità che ci porta a rispettare le distanze, ma è semplicemente la sopravvivenza. La fraternità è un’altra cosa.

Ciò che fa sì che la mia libertà finisca dove inizia quella dell’altro è il fatto che io non vivo questa restrizione come una restrizione della mia libertà ma piuttosto come una condizione della mia libertà. È proprio perché la mia libertà finisce là dove comincia la sua che io posso dire di essere libero, altrimenti non lo sarei. Quelli che vorrebbero aggiungere una restrizione a questa restrizione, nel nome del rispetto, offrono un’interpretazione ipocrita di ciò che risponde a un’esigenza vitale.

C’è una grande differenza tra libertà e rispetto, nella misura in cui, come ho già detto, ciò che mi permette di rispettare l’integrità fisica dell’altro non è il rispetto o il sentimento di fraternità che a lui mi lega, ma semplicemente il fatto che è in questo stesso modo che l’altro rispetterà la mia integrità fisica. Quando un tale ragionamento viene moralizzato, il divieto diventa una questione etica e la libertà scompare con l’idea che alcuni hanno della virtù. Quello che Ségolène Royal sta facendo è quindi molto pericoloso, perché confonde due cose: la libertà di umiliare e la libertà di scandalizzare.

La legge reprime la libertà di umiliare e l’incitazione all’odio ma non la libertà di scandalizzare. Ciononostante, Ségolène Royal ritiene che alcune vignette di Charlie Hebdo fossero umilianti, quando invece erano semplicemente provocatorie. E questa confusione è decisamente deleteria, poiché mettere sullo stesso piano la libertà di umiliare e la libertà di scandalizzare significa assoggettare la libertà collettiva alla suscettibilità di ognuno. Questo implica che non capiamo nulla della fraternità e che, soprattutto, la morale governa la libertà. È quindi la fine della libertà.

Difendere le vignette non significa difendere la possibilità di umiliare le persone. Significa, al contrario, difendere il fatto che, sotto un cielo repubblicano, tutti sono allo stesso livello. Significa accogliere una religione mostrandole che viene derisa come le altre. Non riesco a pensare a nulla di più irrispettoso che ritenere la gente così stupida da non comprendere la differenza tra blasfemia e razzismo. Non riesco a pensare a nulla di più irrispettoso di tanta condiscendenza, come a dire che alcuni francesi non sarebbero in grado di capire che scandalizzare non significa umiliare. Non tutti sono Sègolène Royal. O salafiti.

Il paradosso della nostra epoca

La peculiarità oggi, in Francia, è che ci sono degli oppositori ma non un’opposizione. Per opposizione intendo un organismo strutturato, politico, omogeneo, che dovrebbe inventarsi una proposta concorrente e strutturata. Ci sono degli oppositori, che si detestano tra loro e probabilmente si rubano le idee a vicenda, ma che spesso (ufficialmente) si trovano in disaccordo. In questo modo, la mera critica del potere diventa immediatamente una contestazione al potere stesso.

L’assenza di opposizione è un pericolo per il potere e, a lungo termine, per le istituzioni, poiché l’assenza di opposizione espone al fatto che ogni alternanza (di potere) diventa un pericolo mortale. Quando nessuna opposizione è in grado di fronteggiare il dissenso, le critiche al governo si

trasformano facilmente in contestazione delle istituzioni stesse. E al posto dell’alternanza ci si trova di fronte all’alternativa: la continuità o il caos.

I francesi devono venire a patti con il fatto che la politica, per il momento, non è più articolata secondo un sistema bipolare destra-sinistra, che conoscevamo bene e i cui elementi ci erano familiari. Non esiste, per il momento, un corrispondente del partito liberale francese come esiste in Inghilterra e negli Stati Uniti. La parte in carica non ha il contrappunto (o il contrappeso) di una concorrenza sulla quale poggiarsi per proporre qualcosa. In Francia ci troviamo di fronte ad un pericolo notevole: la politica viene sostituita dall’indignazione, la contraddizione dall’opposizione, la dialettica dall’odio, il quale culmina nella giustapposizione delle indignazioni che finiranno, un giorno, per installare il peggio al potere.

Il secondo paradosso di quest’epoca è che viviamo in una democrazia. In poche parole, viviamo in un regime dal quale nessuno se ne vuole andare. Anche i fascisti di oggi reclamano il diritto di parlare in nome della libertà d’espressione, e i principi democratici sono difesi da tutti. Nessuno vuole uscire dalla democrazia, quindi la democrazia è un regime che non ha altro orizzonte che sé stesso. E questa chiusura ha un effetto diretto sulla noia: cosa fare in un mondo in cui la storia si è conclusa? Cosa facciamo? Come dobbiamo agire in un mondo in cui la storia si è conclusa? È la ragione per cui molte persone vogliono pensare ad ogni costo di vivere in Francia sotto dittatura. Perché non c’è niente di più rassicurante di avere un nemico ufficialmente tiranno e oggettivamente detestabile. Dipingendo Emmanuel Macron come un monarca impiccato e Brigitte Macron come Maria Antonietta, i gilet gialli fanno più che solo divertirsi. Lo scopo è quello di nascondere la realtà con un presidente legittimo, eletto dal nostro desiderio di pensare che sia un potere tirannico, la cui soppressione sarebbe una liberazione collettiva. E questo desiderio non deriva tanto dal disprezzo per il potere, che non è più fastidioso di qualsiasi altra cosa, quanto da una questione più profonda: senza avversità identificabili, senza nemici, senza grandi ingiustizie da combattere, le persone non sanno più cosa fare e se la prendono, in mancanza d’altro, con il sistema che garantisce la loro libertà, un sistema che dipingono come una dittatura, per dare un senso alle loro vite, aggiungendole

così nel ricordo di lotte gloriose. Nella vita si fa quel che si può.

Traduzione a cura di Claudia Cesarini e Sara Pisani